L’autore di questo primo articolo del 2015 è Alessandro Rocco, uno dei nostri senior trainer, che ci racconta come nasce e cosa rappresenta il famoso “quoziente intellettivo”.
Una delle maggiori difficoltà della ricerca sulla disabilità intellettiva nasce dalla mancanza di una definizione precisa di cosa sia l’intelligenza. Ci sono state numerose teorie che si sono succedute nel tempo. Agli inizi del secolo scorso e per un cinquantennio, l’intelligenza viene considerata come un’unica funzione generale valutabile attraverso verifiche di abilità di risoluzione di problemi logico-matematici. Nel 1912 lo psicologo tedesco William Stern conia il termine I.Q. (dal tedesco Intelligenz-Quotient) e lo definisce come la risultante della formula (età mentale/età biologica)*100. In questo modo due bambini di età diversa che fossero risultati entrambi con un’intelligenza pari alla media, avrebbero ottenuto entrambi lo stesso punteggio di 100. Si succedono ulteriori teorie che continuano a considerare l’intelligenza come un fattore generale e tendenzialmente predeterminato. In parole molto semplici, l’idea di intelligenza è intesa come qualcosa di molto rigido e predeterminato.
Negli anni ’60, però, in una scuola californiana un’equipe guidata dal ricercatore americano dell’università di Harvard, Robert Rosenthal, mette appunto un esperimento molto interessante nel campo dell’apprendimento, sottoponendo un gruppo di alunni a un test per valutare il Quoziente Intellettivo. In un secondo momento seleziona, in modo casuale e senza rispettare l’esito e la graduatoria del test, un numero ristretto di bambini, informando gli insegnanti che si trattava di alunni estremamente intelligenti.
Rosenthal, dopo un anno, ripassa nella scuola e verifica che i suoi selezionati, seppur scelti casualmente, avevano confermato in pieno le sue “previsioni” migliorando notevolmente il proprio rendimento scolastico fino a divenire i migliori della classe. Addirittura molti insegnanti lo ringraziano per averli aiutati a capire come valorizzare al meglio i ragazzi. Gli insegnanti indicano che, globalmente, questi bambini (scelti a caso) hanno fatto più progressi degli altri, sono certi che il loro sviluppo cognitivo sia progredito in misura maggiore rispetto agli altri alunni. Questa differenza in realtà esiste soltanto nella mente dell’insegnante.
Nell’esperimento alla Oak School, Robert Rosenthal riesce in pochissimo tempo a far capire due cose importantissime:
L’intelligenza non si misura con nessuno dei test prodotti dai primi studiosi del campo. Il QI sembra incidere solo per il 20% sulle prestazioni lavorative ed in percentuale ancora minore su quelle non professionali. Ciò significa che il suo valore non rispecchia una misura della potenzialità cerebrale, della capacità globale di far fronte a una varietà di problemi, ma semplicemente riflette l’abilità specifica nel risolvere determinati problemi scolastici.
Gli studi di Rosenthal sono talmente importanti che il concetto di “effetto Rosenthal”, “effetto Pigmalione”, “Profezia autorealizzantesi” sono ormai alla base di ogni processo cognitivo.
E ora cosa fare?
E per finire, buona visione.. Di chi è un ottimo insegnante…
2 commenti on "La buffa storia del Q.I."
Molto interessante. Il bello dell'effetto "Pigmalione " è che funziona anche con noi stessi. Quando incominciamo a considerarci persone intelligenti, di successo, dei campioni, ecc... cambia il modo di comportarti, e facendolo "come se..." sei già quello che vuoi, cresci in modo esponenziale nella direzione che ti sei dato. Grazie Alessandro Rocco per la precisazione riguardo al Q.I. Willy
Grazie Willy!! È un piacere leggere una tua recensione!